Catena Cancilleri presenta in questo articolo l’inedita intervista a microfono spento rivolta allo scrittore siciliano Andrea Camilleri, noto per aver dato le natalità all’investigatore Montalbano, ma già acclamato con il Re di Girgenti
Intervista a microfono spento? Si parte con Camilleri!
Dottor Camilleri, non si sente un po’ come Gesualdo Bufalino visto che è stato spinto a pubblicare un libro da Leonardo Sciascia?
Vede, io non sono stato spinto a pubblicare un libro da Leonardo Sciascia. Prima dell’incontro con Sciascia, che riguardava La strage dimenticata, io avevo già pubblicato un libro con Garzanti e uno con Lalli. Quindi, voglio dire, il paragone è un po’ difficile sostenerlo. Mentre Bufalino è tutto intero una scoperta di Sciascia, in un certo senso, il mio caso è completamente diverso. Ha osservazioni da fare a questa mia risposta?
No. Semplicemente la mia osservazione era relativa a La strage dimenticata.
Vede, la strage dimenticata è il mio terzo libro. Non è come potrebbe essere stato per Bufalino con La diceria dell’untore. Il mio è un terzo libro che addirittura volevo che scrivesse Sciascia. Quindi la cosa è più complessa.
La sua ricerca di sperimentazione linguistica e stilistica, molto evidente ne Il re di Girgenti, risente l’influenza di Quer pasticciaccio brutto… di Gadda?
No. La ricerca di sperimentazione linguistica e stilistica, almeno per ciò che mi riguarda, non risente dell’influenza di Quer pasticciaccio brutto…cioè a dire, io ho scritto una decina di romanzi prima di arrivare a Il re di Girgenti. Il re di Girgenti non è altro che il pedale spinto di quella che era una ricerca stilistica mia e soprattutto sul linguaggio, naturalmente. Mentre prima ne Il birraio di Preston, ne La concessione del telefono e in altri romanzi, e nello stesso La mossa del cavallo, tutta l’ambientazione storica mia riguardava il post unità d’Italia, qui ci troviamo tra la fine del Seicento e prima del Settecento. Cioè a dire, il modo di parlare dei contadini è un linguaggio completamente diverso che ha portato ad una ricerca lontanissima, semmai, da quella di Gadda.
Lei ha detto che il linguaggio de Il re di Girgenti è completamente diverso rispetto a quello degli altri libri che ha scritto e rispetto a Gadda. C’è un libro su cui lei ha messo mano per quanto riguarda il siciliano di quel periodo?
Si. Le parità… di Serafino Amabile Guastella. Quello mi ha fatto entrare molto nel mondo contadino.
Sono dell’opinione che scrivere in siciliano o avere una cultura siciliana a volte non sempre serve.
Lei è siciliano, io altrettanto: i dialetti sono diversi, alcune parole sono diverse e comunque cambiano nel tempo. È questo che mi ha portato a chiedermi se effettivamente c’era stato un testo di cui lei si era avvalso.
Si, ma non Quer pasticciaccio brutto… Io sinceramente questa affiliazione da Gadda la sento poco. La ricerca sperimentale di Gadda è una ricerca stilistica lontanissima dalla mia. Gadda mi diede il coraggio di scrivere in dialetto ma questo è tutto un altro discorso. Lui mi diede il proprio il coraggio vero, pieno. Avevo paura a scrivere in un certo modo; poi lessi e rilessi Gadda e mi dissi: “Oh Dio mio, perché no?” Ecco, io ho un debito con Gadda, ma è un debito di azione.
Quanta influenza hanno avuto su di lei i romanzi storici di Sciascia ed in particolare Il Consiglio d’Egitto?
I romanzi storici di Sciascia ed in particolare Il Consiglio d’Egitto.
Che sia detto a quattr’occhi! Io ritengo che sia il più bel libro di Sciascia anche se la critica non è stata poi tanto d’accordo.
Il Consiglio d’Egitto certo che ha avuto un’influenza sul mio libro, anche se volevo dire una cosa. Il modo, la procedura di approccio di Sciascia è assai più leale e veritiera di quanto non lo sia la mia. Cioè a dire: Leonardo si basa su una relativa verità storica; io la storia me la invento.
Si, in questo concordo anch’io ma, a mio avviso, per quanto riguarda l’ambientazione storica, la sua è veritiera. Indubbiamente i suoi romanzi sono molto sui generis e questo lo si vede anche ne Il re di Girgenti, ma la sua ambientazione storica è degna di nota. Questa è la mia modesta opinione.
Si, è vero quello che lei dice, quello che lei domanda. La risposta è parzialmente si. Ecco, non totalmente.
Uno dei compagni di Zosimo viene ucciso da un piemontese e lei descrive anatomicamente il modo in cui viene colpito dalla sciabola; possiamo azzardare un’influenza del romanzo seicentesco Gargantua e Pantagruele di Rabelais e, per l’esattezza, nella funzione della morte individuata da Bachtin?
Lei dice: «Uno dei compagni di Zosimo viene ucciso…».
No, le dico subito da dove viene, quale origine letteraria ha alle spalle. È l’ultima pagina esatta de I vecchi e i giovani di Pirandello. Non è altro. Cioè a dire, quando i piemontesi ammazzano il vecchio garibaldino, lo rigirano, vedono le medaglie e dicono: «Ma chi abbiamo ammazzato?»
È questa la pagina che mi ha colpito, è questa la pagina che ha un eco nella mia pagina. Non certo il Gargantua.
È stata segnalata in alcuni libri di Sciascia l’influenza della concezione pirandelliana della realtà e ho notato che lei spesso (per esempio ne La gita a Tindari e ne L’odore della notte e infine ne Il re di Girgenti, in particolare nei capitoli riguardanti l’infanzia di Zosimo) rappresenta l’immagine del famosissimo ulivo saraceno di Contrada Caos. Ciò vuol dire che lei si vuole idealmente rifare a Pirandello?
L’immagine del famosissimo ulivo saraceno di Contrada Caos…
Non è che uno, vede, ha l’intenzione. Lei mi chiede, mi domanda: «Lei si vuole idealmente rifare…». Sa, all’atto della scrittura è difficile che ci sia un proposito quale quello di idealmente rifarsi. Può darsi che uno si rifaccia, ma è come un’eco che lavora dentro di lui. L’apprende a posteriori da studiosi come lei che ci può essere questo rapporto, ma all’atto della scrittura non c’è intenzionalità. Su questo rapporto torneremo fra un po’.
Il personaggio del commissario Montalbano si può avvicinare come ispirazione al commissario Comis del Contesto di Sciascia?
No. Il personaggio del commissario Montalbano non si può avvicinare al commissario Comis del Contesto di Sciascia. Il personaggio del commissario Montalbano è un personaggio seriale che è una cosa assai diversa da un commissario che si trova una volta. Il personaggio del commissario Montalbano, come acutamente ha notato mia moglie, non è altro che una lunga biografia di mio padre.
Nel personaggio di Montalbano possiamo ritrovare la tipologia del detective anti-razionalista che arriva alla risoluzione dei casi per via delle intuizioni, a differenza del giallo classico alla Doyle o Cristie, e non attraverso un ragionamento analitico. In ciò lei si ispira a Dürrenmatt o ai polizieschi di Sciascia ispirati a Dürrenmatt?
Nel personaggio di Montalbano certo che più che problematiche alla Doyle o alla Cristie lei trova problematiche alla Dürrenmatt. È ovvio, è evidente. Nei personaggi alla Doyle o alla Cristie c’è l’aneddoto o la deduzione scientifica di cui non ha nulla il mio personaggio Montalbano.
Anzi, in Montalbano prevale più l’intuizione che la riflessione. È la riflessione che deriva dall’intuizione.
Certo.
Con La scomparsa di Patò e La concessione del telefono lei si rifà allo stile del romanzo epistolare Sette-Ottocentesco e, in particolare, nell’uso che fa di lettere e ritagli di giornale. Possiamo scorgere in questo una qualche influenza di Bran Stocker nel Dracula?
Per modo di dire. «In particolare nell’uso che fa di lettere e ritagli di giornale…»
Non lo so, non lo so se…Bran Stocker nel Dracula…non lo so. L’ho letto, ma il discorso è un altro. Il discorso è che in questi romanzi io tento l’uccisione vera dell’autore, cioè a dire dell’autore che interviene sui personaggi: dice quanto è alto, ad esempio 180 cm, che porta i baffi in un certo modo, che veste in un certo modo. Questo io tendo a eliminarlo. Questo lo faccio diventare compito del lettore, se ne ha voglia. E, come disse la Gabrien in un articolo su di me, che io ho trovato bellissimo: «In questi libri c’è un po’ l’ideale dello scrittore che si mette in un angolo e si cura le unghie mentre il racconto se ne va per i fatti suoi». È una frase di Joyce.
È lo stream of consciousness, allora?
No, no. Non è un flusso di coscienza. È un’altra cosa, cioè a dire il tentativo di fare scomparire l’intervento continuo e certe volte noioso dell’autore che stabilisce com’era quell’alba, che stabilisce come è vestito quel personaggio. Niente di tutto questo. I personaggi parlano e si scrivono, si autodefiniscono da soli.
Ne Il birraio di Preston e soprattutto nella struttura composta da micro-racconti collegati fra loro da un evento o personaggio comune possiamo ravvisare la struttura del romanzo picaresco? E Il re di Girgenti può essere accomunato a questo genere narrativo?
Si, ne Il birraio di Preston, si. Certo che c’è del picaresco. Il picaresco mi interessa molto.
Nell’episodio del vescovo Ballassàro Reina possiamo scorgere una similitudine con il personaggio principale del Lazarillo de Tormes che, lavorando per un arciprete viene beffato e, successivamente, ne diviene il beffatore?
Metto le ultime due domande insieme, va bene? Ora, tenga presente che il romanzo da lei citato, simbolo del romanzo picaresco, il Lazarillo de Tormes, io l’ho studiato a fondo per un motivo molto semplice. Io sono stato il regista della presentazione in quattro puntate che ne fece la Rai, Radio Televisione Italiana, il che comportò uno studio del testo molto serio e molto approfondito. Allora, certamente capita che ti rimane appiccicato addosso dopo uno studio di quel tipo. Qualche cosa rimane.
Fa parte poi di quel bagaglio culturale che uno si porta dietro, no?
Certamente che fa parte del bagaglio che uno si porta dietro. Vede, metterlo in scena come ho fatto io e registrarlo in tv è qualcosa di più che leggerlo. Significa entrare nei personaggi e cercare di renderli plausibili e vivi. Quindi, per questa intuizione del Lazzarillo, io gliene do pienamente atto.
Il personaggio del marchese Boscofino con il suo atteggiamento filo-democratico richiama la figura di Consalvo de I Vicerè / Tancredi de Il Gattopardo con la filosofia «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»? il personaggio di Armando Giaele Ficarra di Santo Spirito non richiama la figura del principe di Salina ne Il Gattopardo con la sua passione per l’astrologia? E ancora, lei sente più “suo” Il Gattopardo o I Vicerè di De Roberto?
Io posso avere nella memoria un modello. Questo non riguarderà ma il Gattopardo; riguarderà quasi sempre I Vicerè di De Roberto. Del Gattopardo rifiuto tantissime cose, dei Vicerè io accetto quasi tutto. Questa è la differenza del mio rapporto tra i due libri. È chiaro che avendo preventivamente questo tipo di rapporto con i due tipi di romanzi, faccia lei quale dei due tipi di romanzi può influenzarmi di più rispetto a un altro.
Ne Il re di Girgenti viene rappresentata l’opposizione al Vicerè spagnolo e larelativa repressione. In questa occasione Zosimo pronuncia la frase «né col papa né col re». La posizione del personaggio non può essere attribuibile a Pio IX e alla sua bolla Unam Sanctam all’interno della quale impone ai cattolici l’astensione alla vita politica?
«Né col papa né col re». Vede, per quanto le possa sembrare assurdo non nasce da Pio IX e dalla sua bolla Unam Sanctam che io conosco benissimo. Di questo io credo di parlare in un altro romanzo, sia pure di sfuggita: Il filo di fumo. Io qui mi sono rifatto ad un’espressione molto polemica, e che molte polemiche generò, di Leonardo Sciascia quando disse: «Né coi brigatisti rossi né con questo Stato» e io l’ho riportato a quei tempi. Ma questo netto «né…nè», mi colpì allora e io l’ho utilizzato qui.
Ne La voce del violino lei cita lo scrittore Carlo Lucarelli. Potremmo affermare che il Capitano di Giustizia de Il re di Girgenti, con la sua scelta di servire la legge incondizionatamente, richiami la figura dell’ispettore di Lucarelli?
No, non richiama la figura dell’ispettore di Lucarelli. La verità è che io ne Il re di Girgenti faccio una storia degli antenati di Montalbano. Allora, il Capitano Montaperto può essere il catanonno di Montalbano, come nonno di Montalbano è il Delegato di Polizia de Il birraio di Preston. È, come dire, il suo albero genealogico che mi vado costruendo.
All’interno de Il re di Girgenti vi è l’episodio in cui i capi rivoltosi si riuniscono a casa di Zosimo e, fatti i conti, dichiarano di aver reclutato all’incirca mille uomini. Non ricorda per caso l’impresa garibaldina dei Mille?
No, il fatto dei mille uomini, che poi i garibaldini non erano mille, ma erano di più. Chiaramente e semplicemente è un richiamo ai Mille di Garibaldi ma, come dire? Come scherzosa citazione.
L’ideale di fratellanza internazionale propugnata da Zosimo non si ispira idealmente alla Società delle Nazioni (Onu)? Non riscontriamo, quindi, nel romanzo, anche echi della contemporaneità? L’episodio in cui Zosimo comincia ascrivere alcune leggi su un tronco dell’albero «liscio e bianco» non richiama alla tradizione storica delle origini di Roma, alla Tabula dealbata e alle leggi delle XII Tavole?
È fondamentale la domanda che lei pone, cioè a dire, la fratellanza internazionale e il fatto che Zosimo scriva le sue leggi su un albero scortecciato: esse non appartengono a me. Sono un mio furto vero, autentico, dall’abate Meli. L’abate Meli ha scritto, tra le varie cose, un poemetto splendido che riguarda don Chisciotte e Sancio Panza. Nel poemetto dell’abate Meli queste leggi di Zosimo sono le leggi di don Chisciotte e che don Chisciotte scrive su un albero scortecciato. Questo lei lo può scrivere tranquillissimamente perché è un mio debito di un furto che io ho operato nei riguardi di Meli. Non solo, mi fa fare un sostanziale salto illuminista a Zosimo perché l’abate Meli verrà in tempi di Illuminismo, cosa che Zosimo non è. Queste sono leggi illuministe e io me ne sono appropriato per allargare intellettualmente la figura di Zosimo.
Zosimo un precursore dell’Illuminismo, quindi.
Esattamente.
L’episodio in cui Zosimo comincia a scrivere alcune leggi su un tronco d’albero «liscio e bianco…». Non lo so, no. A questo non ci ho neanche pensato alle leggi della Tabula dealbata, perché io ero dentro la storia di Meli quando scrivevo.
Questa è una mia riflessione. Naturalmente non da critica o da studiosa ma semplicemente da studente che nel suo corso di studi si è trovata di fronte a questo tipo di documenti. Diventa quasi automatico pensare che ci sia un nesso.
Certo.
Ne Il re di Girgenti, ed in particolare negli ideali utopici di Zosimo, non possiamo ravvisare una consonanza con gli ideali utopici di un Tommaso Moro?
Certo, certo che ne Il re di Girgenti lei trova degli ideali utopici alla Tommaso Moro, solo che non posso dichiararli. Ossia, non posso dichiararli per attenermi ad una realtà storica. Zosimo non può conoscere Tommaso Moro. Nell’elenco dei libri che gli trovano, non gli trovano certo Tommaso Moro. Non è una lettura di Zosimo. Attenendomi ad una finta realtà storica io lo tendo ad escludere. Poi, che dalle mie letture passi qualche cosa su Zosimo è un altro discorso.
Sempre ne Il re di Girgenti sono molto presenti echi manzoniani: ad esempio nella figura del duca Pes y Pes e dei suoi scagnozzi, Honorio e Hortensio. Non sono citati don Rodrigo e i suoi bravi?
Guardi, gli echi manzoniani ne Il re di Girgenti sono molti. C’è stato un critico, in un Convegno che è stato fatto su Il re di Girgenti, che li ha proprio enumerati uno per uno. Ma d’altra parte, vorrei chiedermi: «Come si fa a scrivere un romanzo storico in Italia senza essere in qualche modo contagiati, adopero una parola molto semplice, dalla presenza manzoniana?»
Io sono pienamente d’accordo con lei.
Come si fa? Voglio dire che…l’abbiamo talmente…
Io una volta a Catania, proprio presentando il libro con Nigro dissi che prima bisognava leggere La storia della colonna infame e poi andarsi a leggere tutti I promessi sposi perché illuminavano il lettore. Ma sa quanti di questi episodi sono stati rilevati dai critici? «Ah, c’è questo punto. Può essere…non può essere in questo punto…».
Questo, a mio avviso, torno a ribadire, diventa quasi automatico.
Come posso dire? Essi mi trovano ovviamente d’accordo. Ma proprio nel modo più ovvio d’accordo. Una volta don Benedetto Croce scrisse: «Perché non possiamo non dirci cristiani?»; la doppia litote per arrivare…Perché non possiamo non dirci manzoniani o perché non possiamo dirci pirandelliani? Questo è il vero problema. Si può scrivere un romanzo storico prescindendo da Manzoni?
A mio avviso no. Questa è la mia modesta opinione.
E allora! Sa come fa nei film Bryan De Palma quando cita Hitchcock e dice: «Questa è una citazione?». Alcune sono delle citazioni esplicite, altre sono citazioni implicite. Ma le citazioni esplicite sono la linfa vitale di un romanzo.
Per quanto riguarda la descrizione del lazzaretto ne Il re di Girgenti mi sembra che lo spunto sia di origine manzoniana anche se il Manzoni dà una visione improntata ad una concezione religiosa della vita e del dolore. Con questo episodio, lei non mette, invece, in evidenza la sua visione agnostica riscontrabile in tutti i suoi romanzi?
Ecco, questa domanda è perfetta! Il lazzaretto, certo, una visione agnostica riscontrabile ne Il re di Girgenti.
Questo io l’ho riscontrato non tanto da critica camilleriana. Io le parlo da fan, soprattutto da fan. È un elemento che io ho riscontrato in tutti i suoi romanzi. Forse ne Il re di Girgenti si nota di più. Se poi facciamo un confronto tra quella che è la visione manzoniana e la sua, indubbiamente, diventa molto più evidente.
A mio avviso possiamo vedere due romanzi che, da un certo punto di vista, sono paralleli, ma che poi si distaccano. Sono due facce della stessa medaglia viste da una angolatura diversa. Almeno, questa è la mia impressione, la mia riflessione.
Ed io la trovo sostanzialmente giusta.
Vede, quello là nelle case, nel lazzaretto, ho tentato di dare il massimo. E il massimo che potessi fare era quello di metaforizzare il dolore nel dolore della casa stessa. Non riesco ad esprimere una concezione religiosa della vita e del dolore.
Ma questo è anche il punto di vista dell’autore e guai se venisse a mancare.
Mi corregga se sbaglio! Ne La linea della palma, nel capitolo Il fascismo, la guerra e la liberazione (p. 114), lei afferma che la Liberazione per lei è stato il ritorno del canto degli uccelli perché la mattina di quel giorno storico lei si svegliò a causa dell’improvviso silenzio. Ne Il re di Girgenti vi è un passo in cui Zosimo, ancora piccolo, durante il periodo della carestia, rimane sconvolto a causa del troppo silenzio e della mancanza del canto degli uccelli. Ciò rappresentava per Zosimo il dilagare della morte. Non possiamo quindi affermare che ne Il re di Girgenti vi è una componente autobiografica? E questa componente autobiografica non è simile a quella di Bufalino in Diceria dell’untore?
Mah, il paragone con Bufalino io lo escluderei, anche perché Bufalino, tra l’altro, non è un autore che io amo molto. Sulle componenti autobiografiche, anche ne IL re di Girgenti ce ne sono molte. In ogni romanzo ci sono componenti autobiografiche, anche «il canto degli uccelli».
Questo episodio mi ha colpito molto e le spiego anche il motivo. All’interno de La linea della palma ho “ascoltato” la storia della guerra attraverso la sua “voce”. Lei, all’interno de La linea della Palma dice: «Mi sono reso conto che la guerra è finita perché ho la percezione di sentire, ossia, c’è silenzio ma ascolto, sento, il canto degli uccelli». Cosa che in Zosimo viene a mancare. Egli, anche se piccolo, si rende conto del periodo molto particolare nel momento in cui, non solo c’è l’assoluto silenzio, ma cosa ancor più grave, non sente il canto degli uccelli. Quindi, è come se venisse a mancare la vita.
Allora. È giusta la sua riflessione. Ci sono componenti autobiografiche.
Lei dovrebbe vedere se Sellerio le dà le bozze di stampa di questo convegno su di me tenuto a febbraio dell’anno scorso dove ci sono molti critici e storici che parlano di queste componenti. Lei deve telefonare alla Sellerio e chiedere: «Mi può mandare per favore le bozze del Convegno, visto che mi devo laureare, su consiglio dello stesso Camilleri». Vedrà, per esempio, quanto c’è di autobiografico nel fatto che Zosimo raduni i suoi contadini attorno all’albero e spieghi la storia. Cosa che facevamo ai tempi del Partito Comunista girando per le campagne e spiegando la storia sotto l’albero. Cosa ricordata benissimo da Francesco renda. C’è tanto, molto, e poco rispetto alla mole del romanzo. Ma le note, le notazioni autobiografiche ci sono.
Nella figura del brigante Salomone possiamo vedere una citazione del prete brigante del Marchese del Grillo?
Non conosco Il marchese del Grillo.
Non ha mai visto il film?
No, non ho mai visto il film. È quello con Sordi, credo. No, non l’ho mai visto. Non so che dirle.
All’interno de Il re di Girgenti sono individuabili motivi ispirati alla grande letteratura italiana. Ma sono ravvisabili anche aperture verso la letteratura latino-americana, per l’esattezza, echi della favola di Sepùlveda Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, nel momento in cui Zosimo afferma di aver sempre pensato che gli animali sapevano, e di Cent’anni di solitudine di Marquez per gli attributi virili del padre di Zosimo e di lui medesimo?
Ma certo, ma certo. Un romanzo di questo tipo certo che ha delle ispirazioni o delle coincidenze seppur io non abbia mai letto La gabbianella e il gatto…, ma ciò non significa niente perché fanno parte di una temperie.
Cent’anni di solitudine, si. Ma sa, gli attributi virili sono leggende che corrono, voglio dire, nei paesi latino-americani.
Per quanto riguarda l’incoronazione di Zosimo, non è presente il precedente storico dell’incoronazione di Napoleone Bonaparte il 2 dicembre del 1802?
No, guardi. L’incoronazione di Zosimo è presa dalle poche righe che esistono su Zosimo proclamato re.
Proprio quella è storia. Proprio quando prendono la sedia e la mettono davanti alla cattedrale è uno dei pochi riferimenti storici.
Il re piemontese che sbarca in Sicilia ricalca la figura di Vittorio Emanuele III?
No, il re piemontese che sbarca in Sicilia è Vittorio Amedeo di Savoia. Sono le descrizioni storiche dell’epoca. Come sbarcò…anche questo è un riferimento storico esatto. Non c’è nessuna allusione. Era come era il re, come viene descritto da certe lettere d’epoca: che vestiva di panno, era piccolo, pareva non avere nessuna importanza e i suoi cortigiani, invece, erano meglio vestiti e più splendenti di lui.
Il teatro di Pirandello quanta influenza ha avuto nel suo modo di scrivere romanzi?
Aggiunga una cosa! Non solo il teatro, ma anche la narrativa di Pirandello.
Se mi consente, non da tesista ma soprattutto da sua fan, una piccola riflessione. Il re di Girgenti, rispetto agli altri romanzi storici che ha scritto, o meglio, dopo Il birraio di Preston, è il suo romanzo meglio riuscito. Anzi, se posso azzardare, è meglio de Il birraio di Preston.
Anche secondo me è meglio de Il birraio di Preston.
A mio avviso è anche più accattivante rispetto a Il birraio di Preston. Le dico in tutta sincerità che quando ho letto Il birraio di Preston ho impiegato più tempo a capire, anche la struttura del testo stesso, il modo di collegare gli eventi. A volte avevo difficoltà a ritrovare il filo conduttore di quello che era il romanzo, cosa che, invece, non ho riscontrato ne Il re di Girgenti. Qui si è unita storia e fantasia in una maniera talmente perfetta, a mio avviso, che diventa bellissimo leggerlo e si ha voglia di continuare a leggerlo. Le posso dire che Il birraio di Preston è più piccolo come mole ma più complesso da leggere rispetto a Il re di Girgenti che, secondo me, è anche più affascinante.
Il re di Girgenti, per esempio, è quello che mi ha portato via tanto tempo per scriverlo. Tutta la parte finale, per esempio, cioè a dire, dall’ascesa al patibolo con la citazione dantesca «Son dell’escaline…» a tutto ciò che avviene dopo, sono tutti atti infantili, cioè a dire i miei nipoti e le mie figlie si sono perfettamente riconosciuti nelle azioni di Zosimo, comprese le parole.
C’è un capitoletto che si intitola «Beh, io vado».
Oppure, l’uccisione delle formiche tu sì… tu sì…tu no, è mia figlia Elisabetta che lo faceva da piccola. Cioè a dire, questa sorta di finale, che doveva essere il termine della vita, io l’ho scritto ricorrendo a immagine tutte di inizio della vita, per arrivare a quel filo al quale lui si aggrappa.
All’interno dell’opera ho trovato anche riferimenti prettamente religiosi, biblici se vogliamo, compreso quello della Vergine Sempiterna ossia Santa Rosalia. Ho stentato un po’ a capire che erano la stessa persona.
Ma vede, questa della Vergine Sempiterna, che io banalizzo nel senso di una verginità fisica, che si ripropone malgrado tutto, è in realtà un concetto assai più ampio, che ha già trattato Gorg Amaro quando dice di Teresa Batista che tornava vergine a ogni nuovo amore. Intendeva dire vergine nel cuore, come avviene, come è vero. Ecco, io invece, l’ho voluta, come dire, ironizzare, spingere al massimo. Certo che c’è dentro Santa Rosalia, ma non lo è compiutamente. È un insieme di credenze, di cose.
Almeno io, torno a dire, all’inizio sono rimasta un po’ perplessa, nel senso che notavo una sorta di relazione tra la Vergine Sempiterna e Santa Rosalia, ma ho impiegato un po’ a capire che erano la stessa persona. Sono siciliana ma non sapevo, ad esempio, che la Vergine Sempiterna o la Vergine Sinibaldi fosse Santa Rosalia. Da questo punto di vista mi ha aiutato un mio amico che lavora a Palermo e che mi ha dato la conferma della mia intuizione. Io avevo notato la relazione ma non avevo capito in pieno.
Anche perché io credo di farne due cose diverse apposta per sviare. Una cosa è Santa Rosalia e una cosa è la Vergine Sinibaldi. Chi lo sa, sa che sono la stessa persona.
Infatti! Ciò che mi colpisce del suo modo di scrivere è la sottigliezza, il dover spesso leggere tra le righe. Questo si nota, non soltanto nei suoi romanzi storici, ma anche nella serie Montalbano. Ad esempio, molti affermano che la serie Montalbano, o comunque il romanzo giallo, sia un genere appartenente alla letteratura d’evasione. A mio avviso, invece, non è così perché nella serie Montalbano vi è sottigliezza nello scrivere. Nei suoi romanzi si scorgono anche molti echi della contemporaneità.
Il Montalbano che lei ci propone è un poliziotto molto arguto e amante della lettura, a differenza del prototipo di poliziotto a cui siamo generalmente abituati. Io apprezzo moltissimo il suo prendere in considerazione, con la serie Montalbano, tematiche molto attuali. Da questo punto di vista mi è piaciuto molto il suo ultimo romanzo della serie: Il giro di boa.
Sa, Il giro di boa, giorno 7, no giorno 6 [giugno], io ho un incontro con tutti i sindacati di polizia al Piccolo Teatro Eliseo di Roma. Viene anche Sergio Cofferati. E hanno intitolato questo incontro «Il giro di boa di Montalbano» per parlare dei problemi che io espongo dei miei romanzi. Questo mi fa enormemente piacere.
Penso sia un piacere tanto per lo scrittore quanto per il lettore, ma soprattutto per lo scrittore in quanto si sente non solo letto ma anche ascoltato, poiché, attraverso le parole del libro vengono fuori le parole dell’autore.
Certo.
Di conseguenza, vedere che si ha avuto la capacità di leggere tra le righe e trarre spunto di riflessione da quello che si è letto, indubbiamente fa piacere a chiunque, a maggior ragione all’autore di un libro. Torno a ribadire, quello che mi ha colpito dei suoi romanzi sono proprio i suoi richiami al quotidiano. Nel suo ultimo romanzo si evidenzia, ad esempio, un Montalbano più invecchiato, ma nello stesso tempo un Montalbano molto più umano, molto più riflessivo e, il prendere in considerazione l’alto concetto della giustizia e di come molto spesso noi cittadini la vorremmo e ricordare contemporaneamente Genova e il G8, a mio avviso, è di grande rilevanza. È un merito in più nei suoi confronti e del suo modo di scrivere.
C’è un lettore che mi ha scritto e c’è qualche imbecille che mi ha detto: «Non leggo più Montalbano!» Come se Montalbano non si fosse mai occupato della politica contingente, cosa che invece ha fatto in tutti i suoi romanzi. C’è anche uno che mi ha scritto una lettera molto seria, verso la quale da tempo, da due o tre giorni, da quando l’ho ricevuta, sto ragionando. Dice: «Lei non è più il proprietario di Montalbano. Cioè a dire, Montalbano è una parte di noi, tutto quello che si vuole, proprio perché è diventato così, lei non ha più il diritto di dire attraverso Montalbano quello che lei politicamente pensa. Lo scriva su MicroMega, lo scriva su L’Unità, ma non lo scriva su Montalbano». Intendo rispondergli: «Non è esattamente, per niente, così come lei scrive o come lei vede Montalbano. Montalbano non ha mai tradito il suo personaggio. Se Montalbano è diventato di tutti lo è diventato anche in funzione di ciò che diceva dal primo romanzo. Non devo essere io a farmi un esame di coscienza, ma lei lettore».
Infatti.
Ma noi parliamo anche dell’evoluzione di un personaggio. O meglio, come ogni uomo anche il personaggio cambia. È un discorso prettamente biologico il nostro, nel senso che, più si va avanti negli anni, più si cresce, più si matura e il ciclo diventa più ampio, no? Montalbano, secondo me, ne Il giro di boa è cresciuto, e questo lo ha portato ad una maggiore riflessione. Ora: «Io voglio il Montalbano d’evasione o voglio trarre dal romanzo qualcosa?»
Certo. Ma io non te la do, però, questa lettura di pura evasione.
Ma chi legge i romanzi del dottor Camilleri sa benissimo che non si deve aspettare, a mio parere, una lettura d’evasione. A mio avviso il dottor Camilleri deluderebbe nel momento in cui scrivesse un semplice romanzo perché ciò che ha caratterizzato i suoi romanzi è proprio questo: lo spunto di riflessione. Allora mi chiedo: «Nel momento in cui a Montalbano togliamo la parola e togliamo lo spunto alla riflessione, che cosa rimane di Montalbano? Non rimane più niente».
Infatti, non rimane più niente.
Allora, sinceramente, in quel caso io non comprerei più un suo libro della serie Montalbano.
Non c’è dubbio, non c’è dubbio.
Questo glielo dico in tutta sincerità, non da tesista ma da sua fan. E da fal le dico: «Nel momento in cui Montalbano mi porta alla riflessione, che continui a scrivere, perché mi dà gli stimoli a riflettere su molte tematiche attuali. Se poi vogliamo un romanzo di pura evasione ne possiamo trovare quanti ne vogliamo».
Ma vede, io non sarei capace neanche di scriverlo.
Ma è ciò che lo caratterizza. Io sono sempre della stessa convinzione. Non sarebbe il dottor Camilleri, allora! E non sarebbe lo scrittore che noi siamo abituati a vedere e sentire attraverso la scrittura dove viene messo in evidenza anche quello che è il suo lato umano.
Certo che io faccio degli incontri bellissimi!
È bellissimo, soprattutto, per quanto mi riguarda, aver avuto la possibilità di conoscere non tanto il dottor Camilleri come scrittore quanto il signor Camilleri come persona. La ringrazio per l’opportunità e la disponibilità a me offerta.
Roma, 30 maggio 2003
Bravissima allora come oggi!
Sul maestro, non si può aggiungere nulla, né di quanto hai scritto tu, né di ciò che rispose lui…
Grazie mille!